Villa Prati. Terra Promessa

Mimmo Coletti

Una sintesi di Gustavo Benucci, del suo pensiero e delle idealità, dell'interesse attivo e non mediato verso l'attuale, del proprio sentirsi uomo al di fuori delle possibili sclerotizzanti ventate retoriche ed al tempo stesso artista consapevole, vero, autentico, sulle pareti di Villa Prati..
Una maniera, questa, per sintonizzarsi immediatamente con il senso della storia, con la vita dell'essere, con la traccia consistente dei fatti e delle azioni, recitati, sempre, in prima persona, mai nascosti dietro il fantasma evaporante del simbolo. Un riassunto, allora, che vale a spiegare, a dimostrare, a render chiari e tangibili il cammino e l'ampliamento contenutistico degli assunti.
Gustavo Benucci fa della pittura che si esita, forse, a definire brutalmente "sociale" per non cadere subito in paraventi dialettici, in formule precostituite, in etichette che spesso, molto spesso, odorano di comodo e di gratuito. Segnala, invece, e racconta, intride le pareti e traccia, dà colore e vivacità anche materica a vicende particolari (comunque non particolaristiche), singole e pure generali, universali. Il che non significa certo sconcertante ambiguità, velleità di ricercare il soffio della provocazione: al contrario un linguaggio - divenuto personale ed irrobustitosi nelle mire e nelle intenzioni da un itinerario lungo e sofferto - che trova proprio nella volontà espressiva di base, forza ed il fondamento della virtù esplicativa.
Pagine, allora, quasi da sfogliare e da intendere: questi pareti che contemplano la resurrezione di Villa Prati diventano oggetto meditativo, icona del desiderio, innato ed intatto negli abitanti di Bertinoro e della Romagna intera, di procedere, di andare avanti senza un attimo di esitazione: ricollegarsi al passato ed alla tradizione più nobile e nobilitante ma al di fuori di ogni intento museografico e contemplativo. Stabilire vincoli di parentele mentali, ma sentirsi sempre e comunque "abitanti" dell'ora attraversata, delle sensazioni e degli umori, delle tensioni e dei dubbi, degli interrogativi e delle speranze. Benucci ha raccolto questo e molto altro ancora: ed ha scritto questi brani, questi fogli su muro che tendono fili invisibili verso ciò che è stato, illustrano il presente, oltrepassano la dizione del tempo immobile e guardano, anche, in direzione di ciò che potrà essere.
L'artista, insomma, coagula il succo della storia e ne stampa i caratteri, spiega vicende e fatti quotidiani ed evita di cadere nel "pittoresco" dell'aneddoto, in equilibrio costante e risaputo della nozione stessa di contingente. Non vi è tentativo di estrarre dal gran libro della vita aspetti ed atteggiamenti inediti e così non si è afferrati da una lettura sanguigna e composta di grana grossa.
Da affermare invece l'equilibrio costante che genera il prodotto pittorico, divenuto "summa" e lievitazione degli atteggiamenti e delle voci della gente.
Riscontrabili, magari, nella Festa della "Amicizia" od in quella dell'Uva, dove evidenti emergono calore e partecipazione, emotività e cordiale realtà. Riti antichi e per nulla misteriosi, da celebrarsi - ancora e ripetutamente - a contatto con la natura e con la terra. Qui più che altrove è serbata la fragranza di un attimo ripetibile, il sentimento della creazione e della "koinè", del vincolo umano e della fratellanza. Con una vena tutt'altro che sotterranea di umiltà che significa riconoscersi identici agli altri, legati da sodalizi indelebili e da vincoli mai infranti.
Gustavo Benucci ha recepito tale assenza ed il suo programma artistico a Villa Prati illustra, nella completezza degli episodi e degli interventi, una teoria generale, una via prioritaria di scelte: il narrare privo di pentimenti o, al contrario, di ascetici isolazionismi, però ampio, fecondo, piano, ricco di mille fragranze che seguitano a persistere e costellano i passi dell'individuo.
Scende, l'autore perugino, al ritratto, all'immedesimazione della persona nell'affresco, al contatto vero, perché egli fa della parete un documento vibrante.
E la presenza della campagna, del cosiddetto paesaggio (qualcosa di diverso e di ampliato rispetto al termine insulso dei tanti, troppi descrittori immobili) si intuisce, si avverte nella franchezza sua calamitante.
È là, appena voltato l'angolo: o meglio è dentro questa gente, nei volti sorridenti o pensosi, si è fermata a stampare la sua orma indelebile nei perimetri murari delle abitazioni, nella soda stabilità della campagna generosa, nei filari di vite che formano un mosaico caleidoscopico e cingono, quale immaginario bastione, i paesi d'intorno.
Il pittore ha intuito tutto ciò ed ha saputo trasportarlo in presa diretta, senza elucubrazioni alchemiche, senza distillazioni geometriche; le vigne di Bertinoro ne costituiscono prova ad esempio e possiedono il carattere primario di presentarsi da sole.
E poi, proprio per stabilire l'aggancio con quello che è stato e che si ripresenta agli occhi, Benucci dipinge, ha dipinto, l'ingresso a Villa Prati ed il suo "spirito".
Cambiando registro, intonazioni, traguardi di insieme, nella volontà di ristabilire per un istante profumi forse perduti.
Ha adoperato la soluzione del collage e della materia cromatica che si aggruma e si addensa sotto l'effetto della luce a filo, radente come una cesoiata. Raggiungere la coesione dell'emblema, la preziosità dell'attimo fuggente, il corso della memoria, il dilatarsi della nostalgia. Ed intenerisce l'animo del lettore quel cancello aperto sulle colline scure degli alberi, far da quinta, o la vetrata che inquadra un angolo riposto e reso fragile dalla fiamma del ricordo.
Il tutto per stabilire un ponte, per eseguire opera di raccordo: il silenzio da una parte e la scalata dell'interiorità, il vaglio sereno del tempo, l'oggi dall'altra. Non fini a se stessi i primi, non slegati dal contesto storicizzante i secondi.
In ciò s'avverte la dizione ed il linguaggio, le esperienze ed il cumulo delle tensioni attraversate e superate. Gustavo Benucci è stato (il passato prossimo sembra d'obbligo) pittore dell'Umbria: l'occhio azzurro del Trasimeno e la nettezza dei profili collinari sono stati germi fecondatori della sua Musa, a lungo. Per passare quindi ad una visione più marcatamente pessimistica del reale, al recupero dell'oggetto dimenticato, della cosa derelitta o nascosta, animica nel suo proporsi, dotata di straordinario vigore evocativo.
Il mondo ed il suo protagonista principe, a questo punto, quasi dimenticati o addirittura superati da un universo di scorie, a dissoluzione come medium per esaltare la negatività, la contro-esistenza, imminente e precaria nella sua solidità dell'automa e del feticcio, Golem e totem, verbo e personificazione della vicenda del Novecento.
Una fase, acuta e lacerante, di polemica, un grido rabbioso di protesta. Che hanno avuto significato, alla stregua di una testimonianza inequivoca di amore e di affetto verso ciò che si riteneva irrimediabilmente tramontato.
Ma ora Gustavo Benucci, da qualche anno, si è attestato su posizioni più disponibili.
Ha cancellato il nichilismo oppressivo, è tornato a credere nella fede della razionalità, nella convinzione dell'uomo. E gli affreschi di Villa Prati stanno a dimostrarlo,corollario di una trasformazione che è avvenuta, di una riscoperta che si è verificata priva dei pentimenti.
Benucci "canta" - adesso, - l'individuo: se stesso, noi, gli altri. La violenza della proposta è bandita, probabilmente per sempre. Rimane il valore, la pregnanza, la vibrazione di sentirsi in comunione con tutti. Per un ritrovato umanesimo.
Moderno ed attuale, però.

[1980]